Claudio Borghi
Arthur Schopenauer nella sua multiforme attività di pensatore ha scritto molti saggi ricchi di geniale intuizione e di straordinaria attualità quanto a capacità di interpretare l’animo umano e le sue debolezze, cercando di fornirne una utile interpretazione che permettesse di superarne le inevitabili inquietudini. Tra essi, uno di quelli che io ritengo di maggiore efficacia comunicativa ed applicativa è certamente “L’arte di ignorare il giudizio degli altri” secondo il quale “..a causa della debolezza della natura umana si attribuisce, in genere, soverchia importanza a ciò che siamo nell'opinione altrui".
La forza di Schopenhauer è, come sempre, quella di analizzare i tanti modi in cui i giudizi degli altri condizionano i nostri comportamenti sottolineando come la arbitrarietà di molti dei pareri e spesso la loro natura strumentale ci portano a modificare la nostra condotta. Ora il mio intento non è, come ovvio, quello di imbastire una lezioncina di filosofia spicciola al coltissimo gruppo di amici che frequenta la nostra rivista, ma solo quello di constatare come questo freno relazionale sia oggi abolito e la situazione che noi viviamo giornalmente è quella di perseverare nella inconsistenza del pensiero e delle azioni “nonostante il giudizio degli altri”. La impostazione apodittica domina sia nelle parole che nei gesti e porta improvvisati o presunti scienziati, a lanciare anatemi catastrofici o a proporre realtà edulcorate con il solo scopo di imporre all’infinito la propria immagine e non il proprio pensiero. Ci sono esempi grotteschi come chi propone approcci semplicistici self-made (in ogni senso) per trattare condizioni cliniche di complessità ed eterogeneità impenetrabili alla scienza attuale come pure comportamenti più sottili di lettura a proprio uso e consumo delle cifre delle evidenze in modo che il bicchiere risulti mezzo vuoto o mezzo pieno a seconda che il pensiero dominante sia indirizzato all’ottimismo o alla ineluttabile sconfitta. La pandemia da COVID19 e il martellamento mediatico che ne è seguito e la accompagna in maniera sistematica, ha esaltato le figure degli antagonisti del pensiero filosofico dal quale siamo partiti, ma il germe di tale stirpe di pensatori era già presente nelle decine di implacabili talk-show che imperversano nelle reti televisive e sui cosiddetti “social”, parola con la quale si contrae la allocuzione sensata “social network” così come spesso si sente spesso fare in questa epoca quando spesso si elide l’ultima sillaba e talora l’ultima vocale di nomi già brevissimi (es. Andre in luogo di Andrea) con un risparmio di fonazione tanto fittizio quanto funzionalmente inutile, che non si sottopone al giudizio degli altri.
Lo stesso atteggiamento nei confronti del monito di Schopenauer ha purtroppo colpito anche il mondo della politica sotto forma di autoreferenzialità che produce risultati talora esilaranti in termini di comunicazione (il famoso ciclotrone che faceva muovere particelle tra Ginevra ed il Gran Sasso) e talora grotteschi in termini di credibilità della politica quando nei dibattiti parlamentare si vedono personaggi sprovveduti ed intitolati ad un ruolo politico sugli scranni del parlamento o peggio di quelli dei ministeri sulla base di un giudizio di competenza generato da un grande fratello mediatico che non tiene conto della reale competenza e a dispetto del giudizio degli altri.
Purtroppo, la perdita di quella discrezione di comportamento analizzata nel saggio di Schopenauer non è un aspetto generazionale, ma un atteggiamento mentalmente radicato che deriva dalla self-made culture imperante ai nostri giorni e nella quale il solipsismo di tribune senza dibattiti ed i dibattiti senza interlocutori cha noi stessi possiamo generare parlando ad uno schermo ci stanno costando molto cari rendendo difficoltosa la strada del recupero di una vita serena in un momento nel quale un comportamento ispirato alla maggiore attenzione al giudizio degli altri potrebbe anche salvare la vita.