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Indagini di laboratorio e strumentali in Cardiologia

 Alessandro Capucci, Paolo Compagnucci
  ac  lc 

  1. Introduzione

Negli ultimi 10 anni, le malattie dell’apparato cardiovascolare sono divenute la prima causa di morte nel mondo intero. Si stima che nel 2013 ben 17,3 milioni di morti siano state provocate da queste patologie.[i] Inoltre, sebbene nei paesi più ricchi la percentuale delle morti attribuibili alle malattie cardiovascolari sia andata riducendosi tra il 1990 ed il 2013, su scala globale tale quota è aumentata dal 26 al 32% nel medesimo lasso di tempo, per via della diffusione delle malattie cardiovascolari nei paesi più poveri.

Da questi dati possiamo facilmente comprendere quanto al giorno d’oggi le sfide per la prevenzione, la diagnosi precoce ed il trattamento efficace delle malattie del cuore e dei vasi siano attuali e di interesse primario per l’intera società.

La valutazione clinica del paziente cardiopatico è incentrata su un’attenta anamnesi ed un accurato esame obiettivo, elementi troppo spesso trascurati, ma ancora oggi fondamentali per indirizzare il percorso diagnostico-terapeutico.[ii]Soltanto attraverso un approfondito colloquio con il paziente ed una valutazione sistematica dei segni clinici è possibile selezionare con appropriatezza gli esami da richiedere. Oggi, infatti, di fronte a possibilità diagnostiche e terapeutiche in continua espansione, con costi spesso insostenibili, è quanto mai fondamentale affidarsi al giudizio clinico.

In questa breve trattazione, discuteremo criticamente il ruolo diagnostico e prognostico dei biomarcatori dell’infarto miocardico acuto, dei peptidi natriuretici e della prova da sforzo, con l’intento di dare al medico informazioni aggiornate e diffusamente applicabili.

 

  1. Biomarcatori dell’Infarto Miocardico

Tra le malattie cardiovascolari la cardiopatia ischemica resta, ancora oggi, la principale causa di morte: nel 2013, si stima che 6,5 milioni di persone nel mondo siano decedute a causa della cardiopatia ischemica,[iii] nonostante anche per questa condizione negli ultimi anni i tassi di mortalità si siano ridotti nei paesi più sviluppati.[iv][v]

Le sindromi coronariche acute rappresentano la manifestazione clinica più pericolosa della cardiopatia ischemica e necessitano pertanto immediata attenzione da parte del medico. La necessità di giungere precocemente ad una appropriata diagnosi, in modo da iniziare una corretta terapia, è testimoniata dall'elevata mortalità delle sindromi coronariche acute in assenza di un trattamento adeguato.

L'approccio al paziente con un dolore toracico acuto di possibile origine cardiaca passa necessariamente attraverso l'esecuzione di un elettrocardiogramma (ECG). Questo esame, imprescindibile,  consente di individuare la presenza di un sopra-livellamento del tratto -ST, che nel contesto clinico appropriato è diagnostico di infarto miocardico con sopralivellamento del tratto -ST (STEMI), una condizione che richiede l'esecuzione in emergenza di una coronarografia al fine di individuare ed eventualmente trattare, mediante angioplastica, bypass aorto-coronarico e/o farmaci, la lesione coronarica responsabile di questa condizione clinica (di solito, un'occlusione acuta di un'arteria coronarica in assenza di un adeguato circolo collaterale). Al contrario, qualora l’ECG non riveli un sopralivellamento del tratto -ST, si parla di sindrome coronarica acuta senza sopralivellamento del tratto -ST. In questo contesto, i markers biochimici costituiscono uno strumento diagnostico insostituibile nelle mani del clinico. Infatti, allorquando si rilevi una modifica dei livelli di troponinemia, si parla di infarto miocardico senza sopralivellamento del tratto -ST (NSTEMI), mentre qualora non vi sia una modifica della troponinemia si parla di angina instabile (UA). Questa distinzione ha importanti ripercussioni prognostiche, poiché l’NSTEMI ha una prognosi significativamente peggiore della UA.

Le troponine cardio-specifiche sono i biomarcatori di riferimento che hanno definitivamente sostituito quelli di prima generazione, ovvero le transaminasi, l'LDH, la CK-MB e la mioglobina. Questi ultimi, pur se ormai ampiamente superati, verranno descritti, brevemente, di seguito, in virtù della loro importanza storica incontrovertibile.

Per la prima volta nel 1954, LaDue, Wroblewski e Karmen descrissero un incremento dei livelli di AST e di LDH quando i miocardiociti vengono danneggiati.[vi] Questa osservazione inaugurò l'era dell'enzimologia nella diagnosi delle sindromi coronariche acute. Poco dopo, nel 1960, venne riconosciuto un incremento dei livelli di CK.[vii] Ben presto il dosaggio di AST, LDH e CK divenne un elemento cardine nella diagnosi dell'infarto miocardico. La tempistica dell'incremento di questi biomarcatori nel sangue dipende dalla velocità di rilascio da parte di miocardiociti irreversibilmente danneggiati, a sua volta influenzata dal peso molecolare e dalla sede intracellulare del biomarcatore, ma anche dal volume di distribuzione del biomarcatore, dalla velocità di eliminazione, dall'eventuale riperfusione e, soprattutto, dal flusso ematico e linfatico locale del tessuto danneggiato. Infatti, i biomarcatori divengono rilevabili anche nel sangue periferico non appena la capacità dei vasi linfatici cardiaci di drenare l'interstizio della zona infartuata venga superata e si realizzi pertanto una fuoriuscita (“spillover”) dei biomarcatori stessi verso il circolo venoso.[viii]

Il pattern temporale del rilascio dei biomarcatori ha una grande importanza diagnostica. Tipicamente, i livelli di ASTaumentano a 6-12 ore dall'insorgenza dei sintomi di infarto miocardico, raggiungono un picco a 18-36 ore dall'inizio dei sintomi e tornano normali a 3-4 giorni.[ix] Purtroppo, questo biomarcatore ha una bassa specificità, poiché altri tessuti ne contengono elevate quantità, in primis il fegato, ma anche il muscolo scheletrico, i reni, il cervello, il pancreas, i polmoni, i leucociti e gli eritrociti in ordine decrescente di concentrazione. Il pattern di incremento delle transaminasi può aumentare l'accuratezza diagnostica, poiché il rapporto AST/ALT (rapporto di DeRitis) è solitamente <1 nei pazienti con un'epatite virale cronica mentre un rapporto >3 è fortemente indicativo di infarto miocardico o di epatopatia alcoolica.

I livelli di LDH aumentano relativamente tardi, di solito tra le 24 e le 48 ore dall'insorgenza dei sintomi, raggiungono un picco tra 3 e 6 giorni e tornano nella norma tra gli 8 ed i 14 giorni. Sembra che questo ritardo nell'incremento dei valori di LDH derivi dall'origine di questa molecola, che verrebbe rilasciata dagli eritrociti a dagli elementi cellulari coinvolti nella reazione infiammatoria locale all'infarto piuttosto che dai soli miocardiociti. Anche questo biomarcatore ha una bassa specificità, aumentando in numerose condizioni tra cui, per citarne una di interesse cardiologico, lo scompenso cardiaco.

Fino all'avvento nella pratica clinica del dosaggio della troponinemia, il biomarcatore più specifico di infarto miocardico è stato l'isoenzima miocardico (MB) della creatin-chinasi (CK). Tipicamente, i livelli plasmatici della CK aumentano a 4-6 h dall'inizio dei sintomi, raggiungono un picco entro le 24 ore e si riducono a valori normali a 3-4 giorni. Come per gli altri marcatori, tuttavia, la specificità d'organo non è completa, poiché anche il muscolo scheletrico, il muscolo liscio della parete dei vasi ed il cervello sono ricchi di CK. Questa specificità può essere migliorata dosando gli isoenzimi della CK, in particolare la CK-MB. Gli isoenzimi sono delle molecole che catalizzano la medesima reazione chimica pur essendo fisicamente distinguibili e quindi dosabili in modo differenziato. La CK è un enzima coinvolto in reazioni di fosforilazione, composto di due subunità; ciascuna subunità può essere del tipo M (muscle) o B (brain); il dimero MM predomina nel muscolo scheletrico, mentre il dimero BB nel cervello. Il dimero MB è prevalentemente presente a livello miocardico, dove rappresenta il 14% della CK totale (una percentuale di gran lunga maggiore che negli altri tessuti, dove la CK MB è presente solo in tracce).[x] Pertanto, nella maggior parte dei casi, marcati incrementi della CK-MB plasmatica indicano un danno miocardiocitario irreversibile. Il quantitativo di CK-MB rilasciato complessivamente dal miocardio, valutabile mediante dosaggi ripetuti nel tempo della CK-MB e non, ovviamente, mediante un singolo dosaggio, è correlato alle dimensioni dell'infarto e pertanto al grado di disfunzione ventricolare sinistra conseguente ed in generale alla prognosi.

Un altro marcatore di importanza diagnostica è la mioglobina, una piccola (con un peso molecolare di 17,8 kDa) proteina trasportatrice di ossigeno espressa prevalentemente a livello del cuore e del muscolo scheletrico,[xi] a sede intracitoplasmatica; il suo basso peso molecolare e la sua localizzazione citosolica spiegano il pattern temporale del rilascio di questo biomarcatore, che aumenta molto rapidamente (a 1-3 ore dall'inizio dell'infarto miocardico), raggiunge un picco a 4-7 ore e torna normale dopo 1-1,5 giorni. La mioglobina pertanto può essere considerata un biomarcatore utile nella diagnosi precoce dell'infarto miocardico, sebbene la sua specificità sia inferiore a quella della CK-MB; i livelli di mioglobina, infatti, aumentano anche in condizioni come le distrofie muscolari, i traumi, le miositi, le iniezioni intramuscolo e l'insufficienza renale acuta o cronica; inoltre, anche quando utilizzato nelle prime 3-6 ore dall'inizio della sintomatologia dolorosa toracica, il valore predittivo negativo è soltanto dell'89%.[xii] Peraltro, visto il rapido decremento delle concentrazioni ematiche, la mioglobina è poco utile qualora il paziente si presenti tardivamente, oltre le 24 ore dall'inizio della sintomatologia. L'ambito clinico nel quale ancora oggi la mioglobina conserva un ruolo rilevante è la diagnosi di re-infarto nei pazienti che si presentano con un'angina post-infartuale, qualora la troponinemia risulti ancora elevata, o per la diagnosi di un infarto peri procedurale, dopo un'angioplastica od un bypass aorto-coronarico, proprio per la più rapida eliminazione di questo marcatore dalla circolazione ematica rispetto alla troponina.[xiii]

Negli ultimi anni, come già anticipato, i biomarcatori preferiti per la diagnosi delle sindromi coronariche acute sono la troponina T cardio-specifica e la troponina I cardio-specifica, indicate come biomarcatori di scelta in un recente documento di consenso sulla definizione dell'infarto miocardico.[xiv] Le troponine cardio-specifiche sono delle proteine del sarcomero ed hanno sequenze amminoacidiche differenti dalle isoforme del muscolo scheletrico, caratteristica che ha reso possibile sviluppare dei saggi diagnostici quantitativi con anticorpi monoclonali che sono divenuti imprescindibili nell'approccio al paziente con dolore toracico. Sebbene la maggior parte della troponina nei miocardiociti sia incorporata nel sarcomero, il 6-8% della troponina T ed il 2-3% della troponina I sono disciolti nel citosol, osservazione che spiega il duplice picco solitamente riscontrato in caso di danno miocardiocitario: il primo picco rappresenta il rilascio iniziale delle troponine dal comparto citosolico, mentre il secondo esprime la degradazione della quota sarcomerica.[xv] Tipicamente, i valori di troponinemia aumentano a 3 ore dall'insorgenza del dolore toracico, raggiungono un picco e persistono a livelli elevati per 7-14 giorni per via del rilascio continuo da parte dell'apparato contrattile che si realizza nel tessuto infartuato. Il riscontro di un incremento e/o una riduzione (di almeno il 20%) dei livelli di troponina cardio-specifica (I o T),[xvi] con almeno un valore al di sopra del 99esimo percentile della popolazione normale di riferimento (o URL),[xvii] è diagnostico di infarto miocardico nel contesto clinico appropriato; il valore dell'URL dipende dallo specifico saggio diagnostico in uso. Negli ultimi anni, la pratica clinica è stata ulteriormente modificata dallo sviluppo di saggi diagnostici ad alta sensibilità, che consentono un dosaggio preciso di concentrazioni molto basse di troponinemia, al punto che con questi saggi è possibile rilevare troponine cardio-specifiche in più del 50% di una popolazione sana; questi saggi hanno consentito di aumentare l'accuratezza diagnostica e di anticipare il riscontro di un danno miocardico. Nella pratica clinica, è indicato dosare i valori di troponinemia immediatamente alla presentazione del paziente ed a 3-6 ore di distanza, o più tardi qualora i sintomi si ripresentino o non sia possibile collocarli nel tempo. I valori di troponinemia non hanno solamente un ruolo diagnostico cruciale, ma anche un importante ruolo prognostico, poiché permettono di stratificare i pazienti, individuando quelli a maggior rischio di eventi clinici avversi e di mortalità: infatti, nel contesto di un infarto miocardico senza sopralivellamento del tratto -ST, è indicato ricorrere ad una coronarografia entro le 24 h dall'insorgenza dei sintomi proprio sulla base del solo riscontro di un incremento della troponinemia.[xviii] Purtroppo, anche le troponine cardio-specifiche non sono biomarcatori ideali, in quanto è possibile riscontrare valori elevati anche in altre condizioni, come lo scompenso cardiaco, le infezioni e la sepsi, la miocardite, l'endocardite, la pericardite, le sindromi aortiche acute, le neoplasie, uno stato infiammatorio, i traumi, un danno elettrico (ad esempio, dopo un'ablazione o una cardioversione elettrica), le malattie infiltrative, la sindrome di Tako-Tsubo, l'embolia polmonare, l'insufficienza renale, l'ictus cerebri, l'insufficienza respiratoria.[xix] Laddove un’attenta valutazione clinico-strumentale non riveli un meccanismo ischemico alla base del rialzo dei valori di troponinemia, si dovrebbe parlare di danno miocardico e non di infarto miocardico.

La ricerca scientifica è, ancora oggi, molto orientata nell’individuazione di nuovi biomarcatori cardiaci, non soltanto al fine di poter aumentare ulteriormente la specificità per la diagnosi dell'infarto miocardico, ma anche per ottimizzare la sensibilità nelle primissime ore dall'insorgenza di un dolore toracico. Il dosaggio dei livelli di Copeptina sembra molto promettente per quest’ultimo scopo, sebbene questo marcatore non sia ancora disponibile in tutti gli ospedali.

 

  1. Peptidi Natriuretici

Lo scompenso cardiaco è una sindrome clinica complessa causata da un’inadeguata capacità del cuore di riempirsi e/o di pompare sangue. I tassi di prevalenza, incidenza, e mortalità ed i costi legati a questa condizione stanno divenendo insostenibili. Si stima che nel mondo circa 23 milioni di persone siano affette da scompenso cardiaco; la prevalenza di questa patologia è andata aumentando negli ultimi anni, anche poiché le maggiori possibilità terapeutiche delle malattie cardiache (come l’infarto del miocardio) hanno consentito ai pazienti di sopravvivere più a lungo.[xx]

Il Brain Natriuretic Peptide (BNP) fu inizialmente purificato da estratti di cervello porcino, origine alla quale si deve il suo nome; [xxi] soltanto in un secondo momento si identificarono concentrazioni molto maggiori di questa molecola nei ventricoli di animali o di pazienti con scompenso cardiaco o infarto miocardico.[xxii] L’espressione del gene del BNP si attiva rapidamente nei miocardiociti allorquando aumenti la tensione di parete del cuore, a causa di un incremento della volemia e/o della pressione, come avviene nello scompenso cardiaco.

Il prodotto iniziale di questo gene, il pre-proBNP1-134, viene tempestivamente convertito a proBNP108 a seguito del clivaggio di un peptide segnale. Il proBNP108 viene quindi scisso nel peptide inerte NT-proBNP1-76 e nella molecola attiva BNP1-32 da parte degli enzimi proteolitici furina e corina.

Sebbene il rilascio di BNP e di NT-proBNP avvenga in quantità equimolari, la concentrazione misurabile di NT-proBNP è generalmente maggiore per via della sua più lunga emivita (120 vs. 20 minuti).

L’azione biologica del BNP si esercita attraverso il legame ai recettori di membrana Natriuretic Peptide Receptor (NPR) A e B, che sono accoppiati a guanilato-ciclasi. L’attivazione di quest’ultimo enzima determina un aumento dei livelli di GMP ciclico (cGMP), che si lega ed attiva la protein chinasi G (PKG) intracellulare.

Gli effetti dei peptidi natriuretici sono pleiotropici ed includono l’aumento della velocità di filtrazione glomerulare e della natriuresi, la vasodilatazione, la soppressione del sistema renina-angiotensina-aldosterone e del sistema nervoso simpatico e l’inibizione dei processi di fibrosi e rimodellamento cardiaco.

Al di là di queste nozioni di base, il BNP e l’NT-proBNP sono divenuti dei fondamentali strumenti diagnostici e prognostici nelle mani del clinico. Tra le principali applicazioni pratiche di questi biomarcatori, ricordiamo la valutazione del rischio di sviluppare scompenso cardiaco de novo,[xxiii] la diagnosi di scompenso cardiaco acuto[xxiv] e di scompenso cardiaco a frazione d’eiezione preservata (HFpEF)[xxv] e la stima della prognosi dei pazienti affetti da scompenso cardiaco acuto[xxvi] o cronico[xxvii], anche a frazione d’eiezione preservata.[xxviii]

Inoltre, la possibilità di applicare il BNP o l’NT-proBNP come “sensori” della tensione di parete del cuore al fine guidare ed ottimizzare il trattamento dei pazienti con scompenso cardiaco in ambulatorio ha suscitato un grande interesse. Tuttavia, studi recenti non hanno dimostrato un significativo beneficio di queste pratiche rispetto ad un trattamento convenzionale, guidato dalla sola valutazione clinica.[xxix]

Nell’approccio al paziente con dispnea acuta in pronto soccorso, sia il BNP[xxx] che l’NT-proBNP[xxxi] si sono rivelati più accurati della sola valutazione clinica per l’identificazione dei soggetti affetti da scompenso cardiaco acuto. Inoltre, il ruolo di questi peptidi si è dimostrato additivo rispetto alla valutazione clinico-anamnestica.

Purtroppo, non è possibile definire un valore soglia che consenta di identificare o escludere il 100% dei soggetti con scompenso cardiaco. Tuttavia, valori di BNP < 30-50 pg/ml o di NT-proBNP < 300 pg/ml hanno un valore predittivo negativo vicino al 100% per la diagnosi di scompenso cardiaco acuto; al contrario, valori di BNP > 400 pg/ml o di NT-proBNP >450 pg/ml per soggetti di età < 50 anni, > 900 pg/ml tra i 50 ed i 75 anni di età o > 1800 pg/ml sopra ai 75 anni d’età hanno un valore predittivo positivo molto elevato.[xxxii]

Nel caso di pazienti con dispnea acuta e livelli di peptidi natriuretici nella cosiddetta “zona grigia” (BNP tra 50 e 400 pg/ml, NT-proBNP tra 300 ed il valore soglia per età), è ovviamente necessario considerare i dati clinico-anamnestici nel loro insieme per giungere ad una corretta formulazione diagnostica.

Tra i fattori in grado di influenzare i valori di BNP o NT-proBNP, oltre all’età, ricordiamo la funzionalità renale e l’obesità, per cui sono stati proposti valori soglia rispettivamente più alti o più bassi. Peraltro, sebbene valori elevati di peptidi natriuretici possano essere riscontrati in pazienti con scompenso cardiaco sia a frazione d’eiezione ridotta che a frazione d’eiezione preservata, solitamente il grado di aumento di questi biomarcatori è maggiore nel caso dei pazienti con frazione d’eiezione ridotta.

Ovviamente, valori elevati di BNP o NT-proBNP possono essere osservati anche in altre patologie cardiovascolari, come le aritmie (specie la fibrillazione atriale), l’embolia polmonare o l’ipertensione polmonare. I pazienti in trattamento con Sacubitril-Valsartan, farmaco usato per la cura dello scompenso cardiaco a frazione d’eiezione ridotta, hanno elevati valori di BNP come conseguenza dell’inibizione da parte del farmaco della neprilisina, enzima coinvolto nella degradazione del BNP stesso. Pertanto, in questi pazienti è opportuno basarsi sul solo NT-proBNP che, non essendo substrato della neprilisina, mantiene il proprio valore per la diagnosi di scompenso cardiaco acuto.

In conclusione, BNP e NT-proBNP sono test fondamentali per la diagnosi, la stima della prognosi di scompenso cardiaco e la valutazione del rischio di scompenso cardiaco “de novo”; tuttavia, debbono essere sempre considerati come un elemento aggiuntivo e non sostitutivo della valutazione clinica globale del paziente.

 

  1. Prova Da Sforzo

L’ECG da sforzo (prova da sforzo con ECG) è uno degli esami più importanti e diffusi per la valutazione dei pazienti affetti da patologie dell’apparato cardiovascolare, essendo semplice da eseguire ed interpretare, affidabile da un punto di vista diagnostico, poco costosa e disponibile nella maggior parte degli ospedali. L’introduzione della prova da sforzo nella pratica clinica risale ad oltre 60 anni fa, eppure, questo esame ha mantenuto il proprio potenziale diagnostico grazie alla capacità di adattarsi alle esigenze della cardiologia moderna.

In questa breve trattazione, passeremo in rassegna le indicazioni principali dell’ECG da sforzo, rimandando ad altre fonti per informazioni più esaustive.[xxxiii]

La prima ed ancora oggi più rilevante indicazione all’esecuzione di una prova da sforzo con ECG è l’identificazione dell’ischemia miocardica che consiste in una discrepanza tra la richiesta di sangue ossigenato da parte dei miocardiociti e la capacità del circolo coronarico di garantirne un apporto adeguato. Lo sforzo fisico, determinando un incremento della frequenza cardiaca, del precarico e della contrattilità, aumenta il fabbisogno di ossigeno miocardico che, in condizioni fisiologiche, è soddisfatto da un incremento dell’apporto di sangue ossigenato al cuore, garantito dalla vasodilatazione coronarica. Tuttavia, in presenza di stenosi coronariche, generalmente dovute a placche aterosclerotiche, la capacità del flusso coronarico di adattarsi alle esigenze del miocardio viene compromessa: quando una stenosi ha un’entità del 50-70%, vi sarà solamente una riduzione del flusso coronarico massimo in condizioni di sforzo, mentre in presenza di una stenosi >90%, il flusso coronarico sarà compromesso anche a riposo.

In condizioni di ischemia avvengono una serie di fenomeni che, per la consequenzialità temporale, è stata definita “cascata ischemica”. In primis, il metabolismo dei miocardiociti cambia, passando dall’ossidazione degli acidi grassi alla glicolisi anaerobia con conseguente accumulo di acido lattico. Questi cambiamenti metabolici si traducono in una riduzione della compliance miocardica (disfunzione diastolica), seguita poi da una riduzione della contrattilità miocardica regionale (disfunzione sistolica). Soltanto successivamente sono osservabili modifiche all’ECG e, in ultimo, compare l’angina pectoris. La teoria della cascata ischemica spiega perché la prova da sforzo può rivelare segni di ischemia anche in soggetti paucisintomatici e perché l’aggiunta al protocollo dello sforzo di tecniche di imaging come l’ecocardiografia, in grado di misurare la contrattilità miocardica, si traduca in un miglioramento dell’accuratezza diagnostica.

La sensibilità e la specificità della prova da sforzo con ECG per la rilevazione di una coronaropatia significativa sono rispettivamente pari al 68 ed al 77%;[xxxiv] tali valori aumentano al 68-98% per la sensibilità ed al 44-100% per la specificità con l’aggiunta dell’ecocardiografia da sforzo.[xxxv]

Tuttavia, va sottolineato come, al fine di utilizzare appropriatamente questi esami, debba essere considerata la statistica Bayesiana, secondo la quale il valore predittivo di un dato esame non dipende soltanto dalle sue sensibilità e specificità, ma anche dalla prevalenza della malattia (o probabilità pre-test) nella popolazione in studio. Pertanto, il valore predittivo della prova da sforzo risulta massimo nel caso in cui la probabilità pre-test di coronaropatia sia intermedia, situazione in cui l’esito del test ha la massima probabilità di modificare la gestione clinica di un paziente. Nella pratica medica, la probabilità pre-test di malattia coronarica andrebbe stimata considerando semplici dati clinici, come l’età, il genere e la sintomatologia del paziente.

Da queste premesse capiamo come l’esecuzione della prova da sforzo aggiunga poco o nulla alla valutazione clinica nei casi estremi: sia nel caso dei pazienti asintomatici senza fattori di rischio cardiovascolare, sia nel caso dei pazienti con malattia cardiovascolare già manifesta, come i pazienti con un pregresso infarto miocardico. In questi ultimi, infatti, la prova da sforzo può fornire informazioni utili a stimare la tolleranza allo sforzo, parametro correlato alla prognosi del paziente, oltre all’adeguatezza della terapia farmacologica; tuttavia, le informazioni ottenute hanno una bassa probabilità di modificare la gestione clinica di questa categoria di pazienti, che hanno già una chiara indicazione a strategie aggressive di riduzione del rischio cardiovascolare. Pertanto, è nostra opinione che l’esecuzione reiterata di prove da sforzo in pazienti asintomatici con una storia di cardiopatia ischemica è spesso inappropriata e rischia di distogliere l’attenzione dalla valutazione e dal controllo del rischio coronarico residuo.

La prova da sforzo, oltre a rivelare la presenza di una coronaropatia ed a definire la tolleranza allo sforzo del paziente, può fornire indicazioni sulla severità di una coronaropatia. Ad esempio, un sottolivellamento del tratto ST > 2 mm, in un numero elevato di derivazioni, che compaia ad un basso carico di lavoro e persista a lungo nella fase di recupero è indicativo di una grave malattia coronarica, che richiede immediata attenzione da parte del medico.[xxxvi]

Un’ulteriore importante applicazione della prova da sforzo riguarda la valutazione dei pazienti in pronto soccorso per un episodio di dolore toracico a basso rischio: qualora non venga riscontrato un rialzo dei marcatori di miocardionecrosi a controlli seriati a 4 ore di distanza, il paziente sia paucisintomatico dal momento dell’arrivo in pronto soccorso e non si osservino modifiche dinamiche dell’ECG, l’esecuzione di una prova da sforzo consente di individuare con un buon profilo di sicurezza i pazienti a basso rischio di coronaropatia e quindi con un buona prognosi nel breve-medio termine, che possono essere dimessi a domicilio.

Tra le altre indicazioni alla prova da sforzo, citiamo: 1) la valutazione del rischio operatorio nei pazienti candidati ad interventi chirurgici non cardiaci; 2) la definizione della risposta a trattamenti medici; 3) la determinazione della capacità funzionale al momento di prescrivere un programma di esercizio fisico; 4) la valutazione della competenza cronotropa; 5) una migliore definizione diagnostica in soggetti con note o sospette tachiaritmie ventricolari in corso di sforzi fisici (specie nel sospetto di tachicardia catecolaminergica polimorfica ventricolare, sindrome genetica predisponente a tachicaritmie ventricolari meligne in corso di sforzi e/o stress emotivi); 6) la valutazione della capacità d’esercizio e quindi della prognosi dei soggetti adulti con cardiopatie congenite. Le valvulopatie aortiche rappresentano un’ennesima importante applicazione clinica della prova da sforzo, poiché nei pazienti con stenosi o insufficienza aortica di grado severo, la comparsa di sintomi, specie se a basso carico di lavoro, è un’indicazione al trattamento chirurgico della valvulopatia.

In Italia la prova da sforzo viene considerata parte routinaria della valutazione dell’idoneità all’attività sportiva agonistica; le linee guida Statunitensi, invece, non raccomandano questo esame nei giovani pazienti asintomatici, riservandolo ai soggetti diabetici o con fattori di rischio cardiovascolare maggiori, agli uomini sopra ai 45 anni d’età o alle donne sopra ai 55 anni d’età.[xxxvii]

In conclusione, nella speranza di essere riusciti a riportare con chiarezza le indicazioni più importanti all’esecuzione dell’ECG da sforzo, si sottolinea nuovamente quanto questo test sia cruciale nella valutazione dei pazienti cardiopatici, oggi e, prevedibilmente, anche negli anni a venire.

 

  1. Conclusioni

La cardiologia del XXI secolo è divenuta una scienza in cui le decisioni cliniche sono basate su dati ottenuti da studi scientifici condotti su grandi numeri di pazienti. Inoltre, l’evoluzione della tecnologia ha consentito l’introduzione di nuovi strumenti diagnostici, come le tecniche di imaging intracoronarico o i sistemi di mappaggio elettroanatomico, oltre che di nuove possibilità terapeutiche, come i dispositivi per l’assistenza meccanica al circolo e device elettrici sempre più complicati e raffinati.

A fronte di questa crescente complessità, emerge ancor più chiaramente la necessità per il medico di ricorrere al senso clinico. Soltanto l’attenzione al malato nel suo insieme e la meticolosità nella raccolta dei dati anamnestici e nell’esecuzione dell’esame obiettivo consentiranno al clinico di selezionare gli esami diagnostici ed i percorsi terapeutici più appropriati.

I biomarcatori forniscono informazioni fondamentali per la diagnosi e la prognosi dell’infarto miocardico o dello scompenso cardiaco. In numerose patologie cardiovascolari, la prova da sforzo fornisce ancora dati cruciali nella scelta terapeutica.

Il medico ha, quindi, a disposizione una vasta gamma di possibilità; sta alla sua Arte il compito di scegliere per il bene del malato.


[i] The Global Burden of Disease: 2013 update. http://ghdx.healthdata.org/gbd-data-tool; 2016

[ii] Perloff JK. Physical Examination of the Heart and Circulation, 4th edition. McGraw Hill 2009.

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