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Ipertensione arteriosa. Guida pratica per un comune problema

Riccardo Sarzani
Clinica di Medicina Interna e Geriatria, Centro di Riferimento Ipertensione e Malattie Cardiovascolari, Regione Marche, “Hypertension Excellence Centre” dell’European Society of Hypertension
Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università Politecnica delle Marche e IRCCS-INRCA, Ancona

r.sarzani@univpm.it

INTRODUZIONE
Questa breve guida fornisce informazioni utili quanto solide, basate sia su evidenze medico-scientifiche che su una lunga pratica clinica, per un approccio completo ma sintetico a un comune problema qualunque Medico si troverà a gestire: l’ipertensione arteriosa.  Le informazioni essenziali son riportate in modo conciso ma chiaro affinché ogni abilitato in Medicina e Chirurgia, giovane o anziano che sia, possa affrontare questa comune problematica clinica con successo evitando soprattutto di “nocere” al paziente sia per comuni errori metodologici e/o terapeutici che per inerzia o, forse peggio, ignoranza.

1. L’ipertensione arteriosa: che cosa è e in quale contesto clinico si presenta
L’ipertensione arteriosa è una comune condizione caratterizzata da elevata pressione intraarteriosa dovuta soprattutto ad aumentate resistenze periferiche al circolo arterioso del sangue, in un contesto di volume ematico e portata cardiaca mantenute o anche aumentate. Non è una condizione di sola natura emodinamica, e, specie negli anziani, la perdita di elasticità delle arterie e la ridotta funzione renale hanno un importante ruolo nell’aumento della pressione soprattutto sistolica. È considerato essere il primo tra i fattori di rischio di morte al mondo interessando ben un miliardo e 200 milioni di esseri umani ed è il più importante tra i fattori di rischio cardiovascolare causando, anche quando “lieve”, un danno cronico alle grandi, medie e piccole arterie fino alle arteriole con aspetti fibrotici che caratterizzano una vera e propria diffusa arteriosclerosi ed arteriolosclerosi, spesso associata alla più nota aterosclerosi intimale (dipendente anche dalle lipoproteine circolanti che contengono apolipoproteina B), aterosclerosi di cui l’ipertensione è un forte promotore, accelerandone genesi, progressione e complicanze.

Nella sua forma “essenziale”, che compare e peggiora col passare degli anni di vita adulta, è così comune che oltre l’80% degli anziani sopra gli 80 anni ne è affetto. Essendo comunemente associata e in gran parte causata da eccesso di adiposità, è anche accompagnata da dismetabolismo glicidico e lipidico, configurandosi spesso il quadro della “sindrome metabolica” che contribuisce non poco all’aumento del rischio cardiovascolare globale.

Le ultime Linee Guida Europee ESC/ESH 2018 hanno utilizzato una definizione clinico-epidemiologica di valore pratico centrata sui benefici o meno del suo trattamento definendo appunto “ipertensione” quel livello di pressione arteriosa oltre il quale i benefici del trattamento superano in maniera inequivocabile i rischi del trattamento stesso. Esiste però di sicuro un “continuum” di danno anche per pressioni “alta-normale” a partire da valori superiori a 115/75 mmHg. Vi è infatti da rivedere quella che comunemente viene indicata come “ipotensione” arteriosa ricordando se non altro che molte ragazze e giovani donne stanno perfettamente bene e “in piedi” con una pressione sistolica attorno a 90 mmHg.

2. I valori della pressione arteriosa e la sua corretta misurazione
Dal punto di vista numerico si parla d’ipertensione quando, durante la rilevazione “office” (intesa come rilevazione effettuata da un sanitario, spesso da un medico, in ambulatorio o in ospedale), la pressione arteriosa sistolica raggiunge o supera i 140 mmHg e/o la diastolica i 90 mmHg a paziente comodamente seduto, rilassato, braccia appoggiate all’altezza del cuore, senza piegare o accavallare le gambe. La classificazione dei valori pressori così rilevati è riportata nella tabella 1.

SISTOLICA

DIASTOLICA

OTTIMALE

<120 mmHg

e

<80 mmHg

NORMALE

120-129 mmHg

e/o

80-84 mmHg

NORMALE ALTA

130-139 mmHg

e/o

85-89 mmHg

IPERTENSIONE GRADO I

140-159 mmHg

e/o

90-99 mmHg

IPERTENSIONE GRADO II

160-179 mmHg

e/o

100-109 mmHg

IPERTENSIONE GRADO III

≥180 mmHg

e/o

≥110 mmHg

IPERT. SISTOLICA ISOLATA

≥140 mmHg

e

<90 mmHg

Tabella 1 - Classificazione dell’Ipertensione arteriosa e definizione del grado di Ipertensione secondo rilevazioni office (modificato da ESC/ESH 2018)

Alla base di una corretta diagnosi di ipertensione arteriosa vi è sempre una corretta misurazione dei valori pressori; una impropria misurazione della pressione arteriosa può portate ad una inaccurata classificazione e sovrastima della reale pressione arteriosa con magari anche un trattamento farmacologico non necessario. La misurazione della pressione va sempre fatta con bracciale (manicotto gonfiabile) di dimensioni adatte (Tabella 2) su entrambe le braccia per l’elevata prevalenza d’importanti differenze pressorie tra i due arti superiori e va anche fatto in clino e poi ortostatismo per diagnosticare i comuni problemi, specie negli anziani, di ipertensione in clino ed ipotensione ortostatica. Molto consigliata oggi è anche l’automisurazione domiciliare al braccio con apparecchi automatici. Sconsigliata quella al polso per vari motivi sia tecnici che fisiologici (la pressione arteriosa sistolica è più elevata mano a mano che ci si allontana dal cuore). A domicilio si può considerare normale o ben controllata dalla terapia una pressione inferiore a 130/80 mmHg che nei grandi anziani specie se “vasculopatici” è meglio non far scendere sotto a 120/70 mmHg ma soprattutto è importante farla scendere gradualmente in questi pazienti. Le informazioni più complete sulla pressione arteriosa si ottengono con il monitoraggio pressorio automatico delle 24 ore (erroneamente ma comunemente chiamato “Holter” pressorio) che ci dà importanti informazioni anche sulla pressione media durante le ore del sonno e può farci identificare la pericolosa ipertensione “mascherata” quella cioè che non appare alla misurazione del Medico ma è presente in altre ore diurne (ad esempio attorno al momento del risveglio e/o durante il lavoro) o di notte. A seconda del modo di misurazione della pressione vengono riportati in tabella 3 i valori per i quali si può diagnosticare un’ipertensione arteriosa.

Circonferenza del braccio

Dimensioni del Manicotto

22-26 cm

Small Adult

27-34 cm

Adult

35-44 cm

Large Adult

45-52 cm

Bracciale cosciale grande obeso

Tabella 2 - Criteri per la selezione del bracciale adeguato sulla base della circonferenza del braccio

Tipo di Misurazione

PAS

PAD

PA “office” (dal Medico)

≥140 mmHg

e/o

≥90 mmHg

PA con monitoraggio automatico nelle 24 ore (ABPM erroneamente chiamato “Holter pressorio”)

Ore diurne

≥135 mmHg

e/o

≥85 mmHg

Ore di riposo notturno

≥120 mmHg

e/o

≥70 mmHg

PA automisurata a domicilio

≥135 mmHg

e/o

≥85 mmHg

Tabella 3 - Definizione di Ipertensione secondo le rilevazioni office, monitorate nelle 24 ore e domiciliari (modificato da ESC/ESH 2018)

 

3. La valutazione clinica del paziente iperteso

Una volta accertata la presenza dell’ipertensione arteriosa, occorre eseguire un’accurata valutazione clinica al fine di stabilire il grado d’ipertensione, escludere potenziali cause d’ipertensione arteriosa secondaria (quale il comune iperaldosteronismo primario), identificare i fattori che possono aver contribuito all’insorgenza d’ipertensione ed i fattori di rischio cardiovascolare concomitanti stabilendo inoltre se vi è evidenza di danno d’organo o di patologie cardiovascolari, cerebrovascolari o renali. L’anamnesi accurata e l’esame obiettivo son sempre fondamentali nel paziente iperteso. Vanno inoltre identificate le comuni condizioni associate a risposta psicosomatica di tipo emodinamico con momentanei aumenti, anche importanti, della pressione arteriosa di tipo ”reattivo” a condizioni stressanti o a vere e proprie condizioni psichiatriche (“attacchi di panico” nel loro eterogeneo manifestarsi).

 

GLI STRUMENTI DEL MESTIERE
1. Il fondamentale ruolo degli esami di laboratorio

Dopo un’accurata anamnesi ed esame obiettivo, vengono, senza dubbio per importanza, alcuni fondamentali esami di laboratorio: un punto dolente nella formazione di molti Medici che spesso errano nella loro prescrizione e interpretazione. l due esami di laboratorio fondamentali per l’approccio iniziale al paziente iperteso sono il dosaggio della creatininemia e della potassiemia. Questi due fondamentali esami ci permettono di valutare subito la presenza di danno renale (sia acuto che, più comunemente, cronico) che può essere sia conseguenza che causa di ipertensione e che limita l’uso o l’efficacia di alcuni farmaci per l’ipertensione. Con le note formule (Cockcroft-Gault, MDRD, CKD-EPI) ormai entrate nella pratica di tutti i giorni, si stima quindi il filtrato glomerulare e lo stadio di danno renale. La potassiemia bassa (da considerarsi come bassa già da valori di 3,6 mEq/L anche per il comune aumento preanalitico) ci orienta verso gli iperaldosteronismi e/o gli effetti di una terapia diuretica in un contesto di una dieta ricca di sale, mentre un’iperkaliemia verso una condizione di ridotta funzione renale e/o acidosi. Sia l’ipo che l’iperkaliemia limitano e/o controindicano l’uso di determinati farmaci antipertensivi o cardioattivi. È un comune errore quello di prescrivere farmaci antiipertensivi senza prima conoscere i livelli di potassiemia e creatininemia.

Altri esami indispensabili per inquadrare l’ipertensione e il rischio cardiovascolare sono: il comune profilo lipidico con colesterolo totale, HDL e trigliceridi (quasi mai ricorrere al dosaggio diretto del colesterolo LDL: il colesterolo LDL andrà poi calcolato con la Formula di Friedewald che sottrae dal totale sia il colesterolo HDL che un quinto dei trigliceridi, meglio se nella versione corretta per trigliceridemia/colesterolo non-HDL dove il numero con cui dividere i trigliceridi non è sempre 5, come riportato in tabella 4), glicemia a digiuno ed Hgb glicata, uricemia, emocromo soprattutto per ematocrito e livelli di emoglobina, esame urine e microalbuminuria su urine spot del mattino per identificare una possibile nefropatia proteinurica che per valutare il rischio cardiovascolare.

Tabella 4 -  Fonte: JAMA 2013;310(19):2061-2068. doi:10.1001/jama.2013.280532

2. Gli esami strumentali nello studio dell’ipertensione arteriosa e del danno d’organo da ipertensione
Gli esami strumentali vengono comunemente prescritti in modo erroneo, spesso in eccesso o senza un focus preciso e frequentemente non vengono eseguiti o interpretati correttamente. Idealmente, facendoli ”tutti”, si avrebbe una visione più completa soprattutto per quanto riguarda il comune e diffuso danno negli organo “bersaglio” dell’ipertensione (cuore, arterie, rene ed encefalo soprattutto). Ma nella realtà clinica che tenga d’occhio anche i costi e la fattibilità questo non solo non è auspicabile ma considerando costi e tempi, non è fattibile. Inoltre non è solo il numero d’indagini prescrivibili per tutti gli organi da studiare ma è la qualità degli esami, spesso operatore-dipendenti, e la chiarezza della refertazione che conta ancora di più. Ne è un esempio l’ecocardiogramma, un esame fondamentale per identificare le alterazioni causate dalla pressione nel ventricolo sinistro (dal rimodellamento concentrico in su) che spesso non riporta nel referto la massa ventricolare indicizzata (per superficie corporea e per altezza in m2,7) o il volume atriale sinistro, o le dimensioni della radice/bulbo aortico o addirittura i parametri di funzione diastolica ventricolare sinistra.

È pertanto fondamentale dare la precedenza ad indagini mirate a seconda del paziente e assicurarsi che tali indagini, spesso pagate o da noi tramite le tasse e/o a spese del paziente parziali o totali, siano di elevata qualità sia nell’esecuzione che nella refertazione.

Importante anche un’ecografia vascolare carotidea e femorale (anche senza “Doppler”) richiedendo esplicitamente all’operatore la descrizione di eventuali placche aterosclerotiche subcliniche anche non stenosanti ma sempre importanti indicatori di aterosclerosi la cui presenza implica una maggiore intensità terapeutica. 

Molti altri esami possono avere un ruolo più o meno importante a seconda del paziente e tra questi ricordiamo l’ECG, gli studi di imaging renale/surrenale, e una TAC o RMN encefalo. 

Queste indagini servono soprattutto a svelare e interpretare correttamente il danno d’organo da ipertensione e/o condizioni cliniche non note associate all’ipertensione (stenosi arteriosa emodinamicamente significativa, aneurisma aortico, malattie policistica renale ecc.) e quindi permettono di stimare il rischio cardiovascolare individuale in modo più appropriato e di fare corrette scelte terapeutiche. Infatti l’intensità di cura dipende molto dal livello di rischio cardiovascolare (Tabella 5) oltre che dai valori pressori e, ad esempio, la comune necessità di associare terapia ipocolesterolemizzante in molti pazienti ipertesi deriva spesso da queste evidenze specie quando il profilo lipidico appaia “normale”.

 

Tabella 5 - Gradi di ipertensione, stadi d’ipertensione e rischio cardiovascolare globale sulla base dei fattori di rischio, danno d’organo e condizioni cliniche associate

 

3. Quando inviare il paziente a consulenza specialistica o in ospedale

L’ipertensione è una condizione molto comune e i pazienti dovrebbero essere gestiti da MMG che siano stati formati adeguatamente nelle conoscenze di base di questa comune condizione clinica e/o da Cardiologi adeguatamente preparati nello specifico. Purtroppo nella realtà clinica quotidiana abbiamo avuto modo di constatare una persistente insufficiente preparazione universitaria e post-universitaria sulla spesso “banalizzata” ipertensione arteriosa, che porta spesso a errori di inquadramento clinico ed errori nell’approccio terapeutico. In questi casi ma soprattutto in alcune condizioni particolari una rivalutazione da parte di SPECIALISTI dell’IPERTENSIONE ARTERIOSA (internisti, cardiologi, geriatri, endocrinologi, in genere associati a Centri Ipertensione di livello europeo ESH o riconosciuti dalla SIIA) è sempre utile e spesso fondamentale: 

-pazienti in cui si sospetti un’ipertensione arteriosa di tipo secondario (come il comune iperaldosteronismo primario con o senza adenoma di Conn)

-pazienti di età inferiore ai 40 anni con ipertensione di grado 2 o grado 3 o giovani/giovanissimi con pressione anche lievemente elevata nei quali l’ipertensione secondaria deve essere esclusa

-ipertensione resistente (o apparentemente resistente) al trattamento (vedi sotto)

-insorgenza improvvisa d’ipertensione arteriosa in pazienti con pressione precedentemente normale o riferita “bassa”.

Condizioni di urgenza ipertensiva (definizione variabile ma generalmente con valori pressori di sistolica uguali o superiori a 180 mmHg e/o di diastolica 110 mmHg senza evidenza di danno d’organo acuto) sono molto comuni e spesso gestibili dal MMG o dalla Guardia Medica senza ricovero in quanto dovute, nella stragrande maggioranza di casi, alla comune ipertensione arteriosa essenziale (nota o non nota) insufficientemente trattata e peggiorata temporaneamente da iperattività del sistema nervoso simpatico (importanti stress acuti, attacchi di panico ecc.) e/o eccessivo introito salino (alimentare specie negli obesi ma anche endovenoso in pazienti ipertesi ricoverati e/o in pazienti con ridotta funzione renale). La vera emergenza ipertensiva (presenza di danno d’organo acuto con valori pressori in genere di grado 3), è una vera emergenza medica che richiede un accesso al pronto soccorso e ricovero ospedaliero spesso in unità intensiva.

 

PRINCIPI DI TRATTAMENTO DELL’IPERTENSIONE ARTERIOSA

Le recenti linee guida europee riassumono il generale approccio alla iniziale terapia in maniera abbastanza chiara e sintetica come visualizzabile in Figura 1.

 

Figura 1 - Quando e come iniziare la terapia ipotensivante a seconda dei valori pressori

 

Tutti i pazienti con ipertensione arteriosa o anche quelli con pressione “alta normale” abbisognano di consigli personalizzati riguardo lo stile di vita e l’alimentazione in particolare. Tutti quelli con ipertensione di grado 2 e 3 ma anche quelli di grado 1 con rischio cardiovascolare elevato dovrebbero essere trattati con approccio farmacologico sin da subito (“Immediato” è un termine a mio avviso esagerato e carico del pathos associato al trattamento urgente quando invece questi pazienti son mesi o talvolta anni che hanno frequentemente quei valori pressori). Una sostanziale modifica delle linee guida ESC/ESH 2018 rispetto alle versioni precedenti consiste nell’approccio terapeutico dei pazienti con pressione “Alta normale”: mentre nelle linee guida del 2013 il trattamento farmacologico non veniva raccomandato, nelle ultime linee guida il trattamento farmacologico va considerato nei pazienti con malattie cardiovascolari (es. arteriopatia ostruttiva arti inferiori) e rischio cardiovascolare molto alto ed in particolare nei pazienti coronaropatici.

Il target dei valori pressori da raggiungere in tutti è almeno una PA inferiore a 140/90 mmHg (misurata dal medico/sanitario) ma quasi in tutti la pressione va fatta scendere a valori inferiori a 130/80 mmHg con un trattamento ottimale e personalizzato che non arrechi problemi al paziente dato che dovrà essere continuato per anni (Tabella 6). 

 

Tabella 6 - Valori pressori target da raggiungere (pressione misurata dal Medico)

 

Un’altra differenza sostanziale con le precedenti linee guida riguarda il target terapeutico nei pazienti geriatrici, in particolare nei pazienti ultra ottuagenari il target della PAS è compreso tra 130 e 139 mmHg e tale target viene raccomandato anche nei pazienti se ben tollerato qualora i valori pressori sistolici raggiungano i anche in condizioni di fragilità. Sulla base di molte evidenza disponibili e quindi anche delle linee guida ESC-ESH 2018, oggi anche nei grandi anziani è consigliato portare la pressione sotto a 140 mmHg di sistolica stando attenti però a non scendere sotto i 120 mmHg nella maggior parte dei pazienti perché son state ipotizzati più che dimostrati effetti collaterali da ridotta perfusione cerebrale e/o cardiaca in alcuni pazienti, specie nei grandi anziani coronaropatici/vasculopatici. In realtà molta della cosiddetta “Intolleranza” a livelli più bassi di pressione in molti anziani è spesso la conseguenza di una carente valutazione clinica con assente misurazione pressoria prima in clinostatismo e poi in ortostatismo, misurazione che avrebbe svelato l’esistenza di ipotensione ortostatica molto comune negli anziani (sia nei grandi anziani che meno anziani con danni neurologici e nei diabetici) anche in un contesto di severa ipertensione in clinostatismo. Questi son condizioni comuni che richiedono di essere identificate e poi trattate in modo “sartoriale” con opportuna combinazione di farmaci a breve durata d’azione per le ore notturne e calze compressive in ortostatismo.

In ogni caso non si deve ridurre o sospendere la terapia antipertensiva solo in funzione dell’età: una sospensione del trattamento antipertensivo porta ad un netto incremento del rischio cardiovascolare.

Nei pazienti con pressione normale-alta e rischio cardiovascolare fino a un livello moderato, è indicata, come detto sopra, la modificazione dello stile di vita ma il trattamento farmacologico va già considerato qualora i valori pressori si avvicinino all’ipertensione franca (140 e/o 90 mmHg) nonostante l’adozione di appropriate modificazioni dello stile di vita. In questi pazienti la monoterapia, cioè la prescrizione di un singolo farmaco antipertensivo, è appropriata.

Nei pazienti con ipertensione di grado I e a rischio cardio-vascolare basso, il trattamento farmacologico andrà iniziato qualora un appropriato intervento sullo stile di vita di 3-6 mesi non sia stato sufficiente.

Da evitare sempre è invece la terapia “al bisogno” dell’ipertensione arteriosa o meglio dei valori pressori riscontrati elevati, cosa che purtroppo è molto comune a vedersi. In questi casi vanno comprese le comuni cause di variabilità della pressione arteriosa (Errori di misurazione? Reattività psicosomatica? Inappropriata terapia medica con scarso controllo della pressione nelle 24 ore? Terapia al bisogno?). Se i rialzi pressori sono su base emotiva e/o secondaria a condizioni stressanti (dolore, cefalea soprattutto) vanno semmai trattati al bisogno ma solo con ansiolitici e/o analgesici.


Interventi sullo stile di vita
Una descrizione approfondita va oltre lo scopo del presente documento. Va ricordato che sono due i fattori principali che aumentano la pressione arteriosa: il sale totale giornaliero introdotto con gli alimenti e il peso corporeo. Riducendo i cibi salati di comune uso e riducendo il peso corporeo (massa grassa) tramite una combinazione di ridotto introito calorico e aumento dell’attività fisica, la pressione scende in tutti e in particolare negli ipertesi. Il sale totale ingerito (soprattutto tramite alimenti quali affettati e altri cibi presalati e non tanto da sale aggiunto all’insalata per esempio) non dovrebbe superare i 5-6 grammi al giorno ma in genere gli ipertesi italiani ne ingeriscono 10 grammi al giorno e gli ipertesi obesi 12 grammi.

Terapia farmacologica
Ove gli interventi sullo stile di vita non fossero sufficienti oppure quando si sia di fronte a un’ipertensione di grado 2 o grado 3, specie quando associati ad elevato rischio cardiovascolare, è necessario un trattamento farmacologico. Le attuali linee guida ESC/ESH 2018 raccomandano che le prime cinque maggiori classi di molecole antipertensive formino la base della terapia antipertensiva. Per gruppi/classi i farmaci antipertensivi sono: 1) i modulatori del sistema renina-angiotensina (inibitori dell’enzima ACE, sartani e inibitori diretti della renina tra cui vi è solo l’aliskiren per uso clinico); 2) i calcioantagonisti (diidropiridinici come il più comunemente usato amlodipina e non-diidropiridinici come il verapamil, questi ulimi soprattutto nelle tachiaritmie); 3) i diuretici (tiazidici, tiazidico-simili, dell’ansa e i risparmiatori di potassio quali l’amiloride purtroppo in Italia disponibile solo in associazione); 4) i beta bloccanti (beta1 selettivi e non selettivi); 5) gli antialdosteronici (spironolattone, canrenone, eplerenone); 6) gli alfa1 antagonisti o litici tra cui rientrano molti farmaci prescritti da urologi per problemi prostatici; 7) gli alfa2 agonisti centrali (clonidina, metildopa) noti inibitori dell’efflusso simpatico.

In generale si può dire che l’iniziale monoterapia con una sola molecola tra i vari gruppi di farmaci elencati qui sopra è oggi consigliabile solo in una minoranza dei pazienti ipertesi di grado I o con pressione alta-normale e rischio cardiovascolare elevato. Per tutti gli altri le nuove linee guida consigliano di iniziare già con una combinazione di almeno due farmaci di classi diverse (ma che abbiano anche logica farmacologica e fisiopatologica nell’associazione stessa) preferendo quelle associazioni presenti nel mercato come combinazioni precostituite in singola compressa a dosi fisse (Figura 2).

Figura 2 - Trattamento farmacologico dell’ipertensione arteriosa in generale

  1. Modulatori del Sistema Renina-Angiotensina (RAS): sono gli ACE-inibitori (ACEI) e i Sartani (anche noti come angiotensin receptor blockers ARB, bloccanti del recettore AT1 dell’angiotensina II); sono le molecole anti-ipertensive maggiormente utilizzate anche perché dotati di effetti protettivi aggiuntivi sia renali che cardiaci. A completamento di questo raggruppamento di farmaci vi è anche un inibitore diretto della renina(aliskiren, dosi 150-300 mg) poco prescritto oggi a causa della misinterpretazione di alcuni studi clinici peraltro mal disegnati, ma efficace specie in alcune situazioni cliniche o quando vi sono multiple riferite “intolleranze”.

Gli ACEI (perindopril, ramipril, enalapril, captopril e altri) e i sartani (irbesartan, olmesartan, candesartan, losartan e altri) non dovrebbero in genere essere combinati tra di loro per un aumentato rischio di eventi avversi (iperkaliemia, insufficienza renale acuta) a fronte di un modesto beneficio clinico e non dovrebbero essere associati all’aliskiren, sebbene specie nelle nefropatie proteinuriche o nel paziente con insufficienza renale terminale/dialisi possono essere considerate anche associazioni. 

Anche le ultime linee guida, sia Americane sia Europee, ne sconsigliano l’assunzione in gravidanza: sembrerebbe infatti che possano essere dannose al feto soprattutto nel secondo e terzo trimestre di gravidanza. Nel primo trimestre di gravidanza le evidenze di pericolo sono ancora dubbie e contrastanti e alcune malformazioni osservate sono state imputate a fattori confondenti quali diabete misconosciuto o obesità o la stessa ipertensione della madre. Comunque, appena accertato uno stato di gravidanza, il farmaco va  sospeso il prima possibile. 

Gli ACEI modulano la quantità di angiotensina II che viene prodotta localmente in molti letti vascolari e che entra anche nella circolazione arteriosa sistemica riducendo la vasocostrizione angiotensina II-dipendente con dilatazione delle piccole arterie e arteriole che formano le resistenze periferiche totali con riduzione della pressione arteriosa sistemica. Inoltre a livello intrarenale hanno anche un’aggiuntiva azione emodinamica determinando la preferenziale dilatazione dell’arteriola efferente che regola la pressione di filtrazione glomerulare rallentando la fuoriuscita del sangue dai capillari glomerulari e quindi favorendo una più elevata pressione idrostatica intracapillare glomerulare, il principale determinante della velocità di filtrazione glomerulare complessiva. La gittata cardiaca rimane invariata e, nonostante la riduzione della pressione arteriosa, non vi sono modificazioni della frequenza cardiaca anche perché la stessa angiotensina II è uno stimolate del sistema simpatico anche a livello periferico. Queste molecole inoltre non danno ipotensione ortostatica in quanto sembrerebbero resettare la funzione dei barocettori. I sartani, antagonizzando direttamente l’angiotensina II a livello del recettore AT1 hanno sostanzialmente effetti sovrapponibili anche se, a differenza degli ACEI, l’angiotensina II invece di ridursi aumenta. I sartani sarebbero più efficaci degli ACEI nella protezione del rene diabetico o nella regressione dell’ipertrofia ventricolare sinistra anche antagonizzando una produzione locale di angiotensina II che può essere prodotta per vie enzimatiche alternative senza un ruolo dell’ACE.

In generale i dati a disposizione indicano che gli ACEI ed i sartani siano in grado di proteggere “meglio” i pazienti ipertesi dal danno d’organo e nell’utilizzo a lungo termine sono associati a riduzione dell’ipertrofia ventricolare sinistra, a prolungamento della durata funzionale dei nefroni proteggendo i capillari glomerulari dall’iperfiltrazione pressione-dipendente, ad una “de-stiffness” delle grandi arterie e al rimodellamento delle grandi e piccole arterie. Un maggiore “rilassamento” delle grandi e medie arterie porterebbe ad una riduzione della pressione centrale e della pulse pressure (o differenziale), principali fattori emodinamici dannosi per il circolo arterioso stesso; la protezione a livello renale è stata osservata in diversi setting ma soprattutto nella nefropatia diabetica.

Pertanto ACEI e sartani dovrebbero costituire la classe farmacologica di prima linea, in particolare nei pazienti con scompenso cardiaco, disfunzione del ventricolo sinistro, cardiopatia ischemica, diabete, insufficienza renale cronica con associata proteinuria.

Per quanto riguarda il dosaggio, a parte che possono accumularsi quando il filtrato renale è sotto a 30 ml/min data l’escrezione renale prevalente, il raddoppio del dosaggio o l’uso di dose piene non “raddoppiano” l’effetto antiipertensivo ma ne prolungano soprattutto l’efficacia nelle 24 ore. Nel caso dei sartani si ipotizzano anche maggiori concentrazioni tessutali e un più efficace antagonismo della locale angiotensina II. Comunque qualora un paziente stia assumendo un ACEI che sia ben tollerato ed efficace nel ridurre la pressione, non vi è alcuna certa utilità nel passare ad un sartano. 

Può verificarsi inoltre la comparsa di peggioramento della funzione renale per ragioni emodinamiche ovvero per riduzione di pressione e flusso ematico a livello dell’arteriola afferente (secondaria a riduzione della pressione arteriosa sistemica prerenale) e da vasodilatazione preferenziale dell’arteriola efferente (quella normalmente più esposta a più alte concentrazioni di angiotensina II per azione sequenziale della renina liberata a livello preglomerulare e poi dell’ACE presente sulla superficie endoteliale dei capillari glomerulari). Un peggioramento della funzione renale è quindi atteso, su basi fisiopatologiche ed emodinamiche soprattutto nei pazienti con stenosi mono o bilaterale delle arterie renali, nei pazienti che abusano di FANS, nello scompenso cardiaco e nella patologia dei piccoli vasi arteriosi con diffuso danno microvascolare renale che è la base comune della nefropatia cronica da ipertensione (con o senza diabete) comunemente chiamata “insufficienza renale cronica”. Un aumento della creatinina del 30% in caso di nefropatia cronica è quindi atteso e NON deve portare a sospensione della terapia con ACEI (o sartani) in quanto è di natura emodinamica come spiegato sopra e non segno di un danno renale. Sostanzialmente si “svela” quale sia la reale funzione renale residua in mancanza dell’iperfiltrazione a più alta pressione a carico dei nefroni residui funzionanti e destinati a “durare di meno” se sovraccaricati, sovraccarico che porterà a glomerulosclerosi prima focale e poi generalizzata ed obliterazione funzionale e strutturale del glomerulo con perdita quindi dell’intero nefrone. Ovviamente se la creatinina è già elevata (es. 2 mg/dl con ad esempio una funzione renale stimata di 45 ml/min), si potrà osservare un incremento anche più spiccato dei valori di creatininemia a fronte anche della sola attesa riduzione del filtrato glomerulare.

  1. Calcio antagonisti: i calcioantagonisti diidropiridinici (CAD) sono tra gli antipertensivi più efficaci e più usati e agiscono come vasodilatatori arteriolari diretti. Hanno anche un’efficacia paragonabile alle altre classi farmacologiche sulla prevenzione degli eventi cardiovascolari maggiori, in particolare nella prevenzione dello stroke, e sulla mortalità e questo rafforza il concetto che il danno agli organi bersaglio dell’ipertensione arteriosa e gli eventi cardiovascolari vengano ridotti soprattutto dall’abbassamento della pressione arteriosa di per sé piuttosto che dalle specifiche proprietà di ogni singola classe di molecole, sebbene ogni specifica classe farmacologica abbia delle peculiarità che la rendono più adatta ad un determinato target di pazienti (si veda sopra e in seguito).

L’effetto ipotensivo è secondario alla vasodilatazione risultante dal rilasciamento delle cellule muscolari lisce presenti nei piccoli (ma numerosissimi) vasi arteriosi periferici e quindi alla riduzione delle resistenze periferiche totali (e quindi del post-carico cardiaco). I CAD soprattutto grazie all’incrementato afflusso di sangue ai glomeruli renali per dilatazione delle arteriole afferenti senza un paragonabile effetto sulle efferenti, determinano un incremento della pressione di filtrazione glomerulare e specie in alcuni pazienti hanno anche di un effetto diuretico, effetto mitigato dalla contemporanea assunzione di ACEI o sartani. A differenza dei vasi arteriosi, in quelli venosi non si ha una significativa vasodilatazione con conseguente assenza di ipotensione ortostatica nei pazienti trattati con questa classe farmacologica ma con il comune effetto collaterale di edemi declivi perimalleolari anche per la postulata apertura di shunt artero-venosi con conseguente aumento della pressione a valle delle venule e trasudazione capillare. La somministrazione di calcio antagonisti a lungo termine porta ad una regressione dell’ipertrofia ventricolare ed un miglioramento della cinetica cardiaca. Possono avere un ruolo anche nella cardiopatia ischemica mentre i non-diidropiridinici (verapamil, diltiazem) hanno quasi esclusivamente utilizzo nelle tachiaritmie.

  1. Diuretici: si dividono in tiazidici (tiazidici quali l’idroclorotiazide e tiazidico-simili quali l’indapamide, il clortalidone e il metolazone) e diuretici dell’ansa (furosemide, torasemide) oltre ai “risparmiatori di potassio” (sostanzialmente l’amiloride) che saranno trattati a parte. Sono considerati farmaci di prima linea nel trattamento dell’ipertensione arteriosa, ma sempre in associazione con un inibitore del RAAS al fine di ottenere un approccio terapeutico fisiopatologicamente congruo: incrementando infatti l’escrezione renale di sodio e di acqua, l’organismo cercherà di compensare attraverso una iperattivazione del sistema RAAS che ne potrebbe neutralizzare l’effetto ipotensivante e sodiuretico, incrementando la possibilità di ipokaliemia per iperiassorbimento di sodio nel tubulo distale.

I diuretici tiazidici e tiazidico-simili, inibendo il cotrasportatore sodio-cloruro del tubulo contorto distale, facilitano l’escrezione del sodio spesso assunto in eccesso con la dieta. Per esempio un etto di prosciutto crudo di Parma contiene circa 2600 mg di sodio superando quindi i 6 grammi di sale (NaCl) massimi consentiti specie negli ipertesi. L’aumentata escrezione di sodio (con acqua al seguito) determina una riduzione delle resistenze vascolari periferiche per un effetto transmenbrana a livello delle cellule muscolari lisce vascolari, una lieve riduzione della volemia e una riduzione della pressione arteriosa. 

Fatta eccezione per il metolazone e forse per il clortalidone, sono praticamente inefficaci nei pazienti con clearance della creatinina <30 ml/min/1.73 mq: questo è in parte dovuto alla ridotta secrezione nei tubuli prossimali per la competizione con gli acidi organici endogeni, condizione che limita il trasporto nel lume tubulare di questi diuretici al loro sito d’azione nei nel tubulo contorto distale che segue l’ansa di Henle. La maggiore efficacia dei tizidico-simili rispetto ai tiazidici risiede soprattutto nella loro più lunga emivita e durata d’azione. I diuretici tiazidico-simili sono pertanto oggi considerati farmaci di prima scelta nel trattamento dell’ipertensione arteriosa.

I diuretici dell’ansa: la loro principale indicazione è l’incremento della natriuresi e diuresi nei pazienti con edemi improntabili secondari a scompenso cardiaco, cirrosi con ascite, l’edema secondario a nefrite e sindrome nefrosica.

Come anti-ipertensivi sono esclusivamente indicati negli ipertesi con insufficienza renale cronica (creatinina > 1.5 mg/dl o eGFR< 30 ml/min/1.73 mq) in quanto promuovono l’escrezione urinaria di sodio e acqua riducendo l’assorbimento a livello dell’ansa di Henle. 

Purtroppo tuttora è molto diffusa la prescrizione di una singola compressa di furosemide da 25 mg (durata di azione 6-8 ore) al mattino negli ipertesi senza scompenso cardiaco né nefropatia cronica, talvolta con la fantasiosa aggiunta prescrittiva “a giorni alterni”. Trattasi di un vero e proprio errore terapeutico che non ha alcun ruolo nel controllo dell’ipertensione arteriosa nelle 24 ore. Questi diuretici, come del resto anche i tiazidici sebbene in modo più contenuto, devono inoltre sempre essere associati ad antagonisti del SRAA (ACEI, sartani, aliskiren o antagonisti dell’aldosterone) in quanto inducono un spiccato aumento della secrezione di renina, un aumento della formazione di angiotensina II e un iperaldosteronismo secondario. Oltre alla finanche eccessivamente usata furosemide, si ricorda la torasemide (es. 5-10 mg due volte al giorno) che avendo maggiore durata di azione e maggiore costanza nell’assorbimento intestinale dovrebbe essere il diuretico dell’ansa di scelta per il trattamento dell’ipertensione arteriosa associata a severa riduzione del filtrato glomerulare o quando associata a quadri edemigeni di comorbidità (scompenso cardiaco, sindrome nefrosica, cirrosi)

Diuretici risparmiatori di potassio: meritano un discorso a parte in quanto rappresentano una opzione in caso di ipertensione resistente, iperaldosteronismo primitivo e secondario e nei pazienti con scompenso cardiaco a frazione d’eiezione ridotta al fine di ridurre le ospedalizzazioni; quando somministrati insieme ad altri diuretici (dell’ansa o tiazidici) cooperano al fine di ridurre il rischio di ipokaliemia (ed ipomagnesiemia) contrastando di fatto, sebbene indirettamente, l’azione dell’aldosterone tramite l’inibizione del canale epiteliale del sodio del tubulo distale, canale che è il braccio effettore principale dell’aldosterone. Quello più usato è l’amiloride, importante e sicuro farmaco che purtroppo in Italia si trova solo associato a bassa dose (5 mg) a ben 50 mg di idroclorotiazide in una vecchia quanto nota associazione tuttora in uso eccessivo. L’altro è il triamterene molto meno usato e studiato che in Italia si trova (al dosaggio basso di 25 mg) solamente associato a 40 mg di furosemide  e che quindi dovrebbe essere usato tre volte al giorno ma solo quando esistano le indicazioni alla scelta del diuretico dell’ansa (vedi sopra). 

Questi “diuretici risparmiatori di potassio” sono utilissimi per contrastare l’ipokaliemia indotta da altri diuretici e soprattutto dall’introito di sale (alimentazione o via endovenosa) ma, viceversa, hanno il rischio di contribuire all’iperkaliemia specie se introito di sale/potassio è a favore di quest’ultimo o se si associano con antagonisti del SRA specie in condizioni di ridotta funzione renale.

  1. Antagonisti dell’aldosterone: veri e propri antagonisti steroidei che contrastano primariamente l’azione dell’aldosterone a livello recettoriale sebbene in genere abbiano anche con effetti minori e dose-dipendenti di antagonismo al testosterone. Oltre al classico spironolattone si ricorda il canrenone (12,5-200 mg /giorno in unica somministrazione), metabolita attivo dello spironolattone disponibile in Italia in compresse divisibili e totalmente rimborsabili dal SSN anche per i dosaggi più bassi. Questi farmaci hanno anche un ruolo nell’ipertensione arteriosa resistente, nelle forme secondarie a iperaldosteronismo primario e nello scompenso cardiaco anche a dosi molto basse e in associazione con ACE inibitori o sartani. Gli antagonisti dell’aldosterone sono utilissimi per contrastare l’ipokaliemia indotta da altri diuretici e soprattutto dall’introito di sale (alimentazione o via endovenosa) ma, viceversa, hanno il rischio di contribuire all’iperkaliemia specie se introito di sale/potassio è a favore di quest’ultimo o se si associano con antagonisti del SRA specie in condizioni di ridotta funzione renale.

  1. Beta bloccanti: i beta “bloccanti” (in realtà modulano più che “bloccano”) sono farmaci eterogenei e quindi per l’ipertensione si raccomanda di usare i beta 1 selettivi che coprono bene le 24 ore. Preferibili sono pertanto il nebivololo (2,5-10 mg, negli USA fino a 40 mg) e il bisoprololo (2,5-10 mg) quest’ultimo in genere più bradicardizzante. L’azione non è solo cardiaca (riduzione lieve della portata/min) ma è anche sul sistema renina-angiotensina in quanto riducono la secrezione di renina stimolata dal sistema simpatico come avviene ad esempio assumendo la posizione ortostatica. Non hanno le evidenze di outcome forti come per altri farmaci antiipertensivi ma hanno indicazioni aggiuntive quali lo scompenso cardiaco (titolando a partenza da bassi dosaggi tipo 1,25 mg), la cardiopatia ischemica nelle sue varie forme, varie aritmie, la spiccata reattività simpatica che si manifesta con tachicardia oltre che ipertensione arteriosa e le donne in prospettiva imminente o già in gravidanza (in quest’ultime si usa il labetalolo beta e anche alfa bloccante che deve essere somministrato tre volte al giorno idealmente per coprire le 24 ore (a 100-200 mg a cpr). Il nebivololo appare avere anche proprietà aggiuntive vasodilatatorie e metaboliche favorevoli tramite un’azione beta 3 agonista. Molto usato dai cardiologi quanto sconsigliabile è invece il metoprololo che in Italia c’è solo nella forma tartrato (non la forma succinato usata nei trials) che ha bisogno di tre somministrazioni al giorno per coprire veramente le 24 ore e non è neanche molto beta 1 selettivo. Anche l’atenololo, molto usato, non copre bene le 24 ore e dovrebbe essere dato due volte. Quest’ultimo è risultato peggiore di sartani (losartan) o ACE inibitori (perindopril) sull’outcome di importanti trials clinici. Il carvedilolo, utile nello scompenso cardiaco a ridotta frazione di eiezione, non ha beta selettività e quindi al contrario degli altri è sconsigliabile nei pazienti con BPCO e controindicato nelle forme asmatiche come pure nell’arteriopatia periferica mente non son controindicati il nebivololo e bisoprololo. Ne esistono vari altri con proprietà specifiche ma poco studiati in ampi trial clinici. Il propranololo anche non è beta selettivo ma è tuttora indicato nell’ipertensione sistolica isolata associata a tachicardia e ipermetabolismo della tireotossicosi.

  1. Alfa bloccanti (o litici): bloccanti dei recettori alfa adrenergici detti anche alfa-litici, sono degli antagonisti selettivi dei recettori alfa1 adrenergici. Questi agenti sono particolarmente efficaci nel ridurre la ipertensione arteriosa ortostatica o esercizio correlata e più efficaci sulla diastolica e pertanto hanno il rischio di peggiorare ipotensione ortostatica specie quando non sia stata documentata in modo appropriato (con pressione presa prima in clino e poi in orto al terzo minuto). Molti alfa-litici sono anche usati dagli urologi per problemi della minzione in genere correlati all’ipertrofia prostatica ma anche questi “urologici” possono causare o peggiorare ipotensione ortostatica soprattutto quando vengano erroneamente sommati ad alfa litici dati per l’ipertensione arteriosa. Pur essendo farmaci di quarta linea per il trattamento dell’ipertensione sono usati in eccesso sia dai medici di medicina generale che da specialisti forse perché erroneamente ritenuti privi di effetti collaterali o perché non interferendo con il SRAA necessitano di minori conoscenze fisiopatologiche per essere usati. In realtà son farmaci che non sono supportati da trials favorevoli. Si usa soprattutto la doxazosina a 4 mg in monosomministrazione serale ma se necessario/indicato si può arrivare a dare 8 mg due volte al giorno anche in certe forme di ipertensione arteriosa resistente.

  1. Antipertensivi ad azione centrale (alfa 2 agonisti): si utilizza soprattutto (e in grande eccesso!) la clonidina: un agonista alfa2A adrenergico a livello del tronco cerebrale portando ad una riduzione del tono simpatico in uscita. La riduzione di concentrazione della noradrenalina periferica è direttamente correlata con il suo effetto ipotensivo. La clonidina riduce la pressione arteriosa intervenendo sia sulla frequenza cardiaca che sulle resistenze periferiche. Ha però molteplici e severi effetti collaterali tra i quali crisi ipertensive “rebound” se si danno monosomministrazioni per os o per via parenterale e inoltre causa sedazione, astenia, secchezza delle fauci, riduzione della libido, disturbi del sonno, bradicardia sintomatica e BAV in pazienti predisposti. La via transdermica a rilascio cutaneo modificato (cerotti da due dosaggi) che richiede una sostituzione settimanale è quella più utile nella pratica clinica per il trattamento di una minoranza di casi di pazienti ipertesi. L’altro agonista centrale in uso è la metildopa che riduce i depositi di noradrenalina essendo convertita in alfa-metil-noradrenalina che si deposita a livello delle vescicole secretorie dei neuroni adrenergici, sostituendosi alla noradrenalina stessa, e viene pertanto rilasciata al posto nella noradrenalina durante la scarica neuronale e si comporta da agonista alfa 2 presinaptico riducendo la secrezione di altra noradrenalina. Viene utilizzata oggi quasi esclusivamente in gravidanza data la lunga esperienza pratica con questo farmaco che viene dato tre volte al giorno (250-1000 mg a dose, dando solo due o una dose se funzione renale ridotta). I principali effetti collaterali includono sedazione, astenia, secchezza delle fauci, riduzione della libido e, meno frequentemente, sintomi parkinsoniani, iper-prolattinemia, epato-tossicità ed anemia emolitica.

  1. Altri antipertensivi. Ne esistono vari, alcuni ad uso esclusivo specialistico e spesso per uso solo ospedaliero tipo l’urapidil che è simile alla doxazosina ma si usa per vie endovenosa. Oppure i vasodilatatori diretti idralazina e minoxidil che devono sempre essere usati in combinazione con diuretici e antagonisti del SRAA. Ampio uso, non sostanziato da evidenze, si fa anche con la nitroglicerina per via endovenosa farmaco soprattutto capace di dilatare le vene (cefalea anche severa comune effetto collaterale) e non le piccole arterie e arteriole di resistenza.

Strategie di trattamento e casi specifici

La conoscenza indispensabile della farmacologia clinica e il Prontuario farmaceutico ci forniscono numerose scelte per avviare la terapia farmacologica nel paziente iperteso iniziando anche fin da subito con una combinazione di due farmaci in singola compressa o, in alcuni casi come nel giovane con ipertensione iniziale di tipo diastolico, con mono-terapia per poi aggiungere progressivamente molecole fino a raggiungere il controllo pressorio desiderato.

Seguendo le evidenze e le ultime linee guida, la maggior parte dei pazienti avrà bisogno di una combinazione di due o meglio tre farmaci per una completa normalizzazione dei valori pressori nelle 24 ore, valori che nella automisurazione domiciliare dovranno essere sempre inferiori a 130/80 mmHg per aver certezza di una pressione che non continui a far danno negli anni.

Qui di seguito riassumiamo pertanto alcuni concetti utili nella pratica clinica quotidiana.

Un trattamento efficace dovrebbe essere fisiopatologicamente congruo, adatto al paziente e alle sue patologie, tenendo anche conto della sua età, del suo stile di vita e delle sue esigenze, al fine di migliorare l’aderenza e la persistenza nel trattamento prescritto. 

Trattamento “sartoriale” significa costruire il trattamento farmacologico sulla base delle caratteristiche cliniche e delle comorbidità ma anche, perché no, sulla base delle esigenze del paziente stesso; insomma il trattamento ideale dovrebbe essere una combinazione di farmaci magari in formulazione precostituita, con una durata di 24 ore (tranne in alcune eccezioni) per ridurre il numero di somministrazioni e quindi di potenziali dimenticanze, ben tollerati dal paziente e con un ruolo attivo sulle comorbidità.

La mono-terapia va considerata inizialmente soltanto nei pazienti giovani con ipertensione di grado 1 e a basso rischio cardiovascolare quando la sola modificazione dello stile di vita non sia stata sufficiente, nei pazienti con età maggiore di 80 anni o in condizione di fragilità e nei pazienti a rischio cardiovascolare molto elevato (es. diabetico fumatore con pregresso infarto anche “silente” e non iperteso nemmeno al monitoraggio automatico delle 24 ore) quanto abbiano una pressione ai livelli alti della “norma” (130-139 mmHg di sistolica).

In tutti gli altri pazienti il trattamento dovrebbe essere iniziato già con associazioni precostituite di due molecole al fine di migliorare la velocità di efficacia, la copertura delle 24 ore e l’aderenza al trattamento stesso.

Tra tutti gli anti-ipertensivi i modulatori del RAAS, i calcio antagonisti e i diuretici tiazidico-simili hanno dimostrato una simile efficacia nella riduzione della pressione arteriosa e, pertanto, degli eventi cardiovascolari, sebbene quando le classi vengono comparate tra di loro emergono delle peculiarità tipiche. I risultati di tutti i confronti testa a testa delle maggiori classi farmacologiche non hanno permesso la formulazione di un unico algoritmo per la scelta di un farmaco valido per tutti i pazienti ipertesi, piuttosto di combinazioni di farmaci specifiche in condizioni specifiche: 

  • Gli ACEi e i sartani sono indicati nella cardiopatia ischemica e in quella ipertrofica come pure nella protezione della progressione del danno renale.
  • I diuretici sono superiori nella prevenzione dello scompenso cardiaco, sono importanti nella nefropatia cronica con dieta inadeguata e nel trattamento dei pazienti obesi, in sitesi in tutte le condizioni dove sia presente una maggiore ritenzione idrosalina e una pressione arteriosa sodio e volume dipendente. 
  • I beta bloccanti sembrano essere meno efficaci nella prevenzione dello stroke, ma sono una valida scelta nelle giovani pazienti che stanno pianificando o che sono già in stato di gravidanza.
  • I calcio antagonisti sono efficaci nella prevenzione dell’ictus e nel ridurre la mortalità totale e sono comunque vasodilatatori diretti in grado di ridurre le resistenze periferiche caratteristicamente aumentate in ogni tipo di ipertensione arteriosa.

La terapia in associazione dovrebbe comprendere un modulatore del RAAS in associazione con un calcio antagonista o un diuretico come primo step, per poi passare a una triplice terapia con modulatore del RAAS, calcio antagonista e diuretico, quindi aggiungere un antialdosteronico o un alfa litico o un beta bloccante nei casi d’ipertensione arteriosa resistente vera. Il beta bloccante può essere preso in considerazione in ogni step di trattamento, quando vi siano specifiche indicazioni: scompenso cardiaco, angina, post infarto del miocardio, fibrillazione atriale, o nelle giovani donne che stiano pianificando o che siano già in stato di gravidanza.

Negli anziani e grandi anziani specie se “fragili” e/o con multiple comorbidità, il trattamento deve essere progressivo perché talvolta sono anni che hanno pressione troppo alta con danno vascolare arterioso anche a livello del microcircolo e dell’autoregolazione del flusso (a livello cerebrale, cardiaco e renale soprattutto). Ma è indispensabile ridurre la pressione senza causare sintomi perché anche i grandi anziani fragili beneficiano della terapia antipertensiva che riduce soprattutto il rischio di complicanze cardiache e cerebrovascolari della pressione sistolica da 140 mmHg in su.

Ipertensione resistente

Quando una strategia di trattamento fallisce, e la pressione appare essere “resistente” al trattamento, occorre prima prendere  in considerazione diversi fattori:

  • Reale efficacia della terapia farmacologica prescritta (dosaggi e combinazioni di classi di farmaci differenti)
  • La giusta combinazione per ogni singolo paziente (trattamento “sartoriale”)
  • Inerzia terapeutica
  • Aderenza del paziente (anche alle indicazioni/restrizioni dietetiche!)
  • Ipertensione arteriosa secondaria (comunemente da iperaldosteronismo primario)

L’ipertensione arteriosa si definisce resistente al trattamento quando vi è il fallimento nella riduzione dei valori tensivi al di sotto di 140/90 mmHg confermato attraverso il monitoraggio pressorio delle 24 ore (ABPM) o il monitoraggio domiciliare dei valori tensivi, nei pazienti in cui siano già state escluse condizioni di ipertensione secondaria e di ipertensione pseudo-resistente.

Il trattamento deve comprendere le appropriate modificazioni dello stile di vita e una terapia farmacologica che includa un modulatore del RAAS, un diuretico ed un calcio antagonista al massimo dosaggio, o alla massima dose tollerata.

L’inerzia terapeutica determina un non ottimale controllo pressorio e se da un lato c’è la non aderenza del paziente alla terapia, dall’altra c’è l’insufficiente solerzia da parte del medico nel titolare la terapia al fine di raggiungere il miglior target pressorio per il paziente.

Il paziente con ipertensione resistente è solitamente un individuo obeso oppure di età superiore ai 75 anni, con eccessivo introito di sodio nell’alimentazione, con una storia inveterata di ipertensione arteriosa non controllata; solitamente diabetico, con vasculopatia ateromasica polidistrettuale.

Cause di Ipertensione arteriosa pseudo-resistente

  • Scarsa aderenza alla terapia prescritta, sia essa farmacologica che riguardante la modifica dello stile di vita.
  • Ipertensione da “Camice Bianco”
  • Errata tecnica di misurazione della pressione arteriosa
  • Marcata rigidità dei vasi arteriosi secondaria a calcificazione degli stessi
  • Inerzia clinica

Ipertensione arteriosa secondaria

Necessita di una presa in carico e di trattamento presso Centri di Riferimento per l’Ipertensione Arteriosa; tuttavia è compito di qualunque Medico che approcci al paziente con Ipertensione arteriosa quello di porne il sospetto. 

Caratteristiche di un paziente con sospetto di Ipertensione arteriosa secondaria:

  • Paziente di età <40 anni con Ipertensione di grado 2 o Ipertensione arteriosa nel bambino
  • Peggioramento acuto dei valori pressori in un paziente con ipertensione arteriosa cronicamente trattata e stabile.
  • Ipertensione arteriosa resistente
  • Ipertensione di grado 3 o emergenza ipertensiva
  • Presenza di esteso danno d’organo secondario a ipertensione arteriosa
  • Caratteristiche cliniche e laboratoristiche che rendono probabile/possibile  un’ipertensione secondaria a problematiche endocrine 
  • Insufficienza renale cronica
  • Sintomi che rendono possibile/probabile il raro feocromocitoma o una storia familiare di feocromocitoma o paraganglioma

Cause di ipertensione arteriosa secondaria

  • Iperaldosteronismo primitivo
  • Malattia aterosclerotica renovascolare (spesso non causa vera ipertensione nefrovascolare e spesso dilatando l’arteria o le arterie non si risolve l’ipertensione arteriosa che potrebbe preesistere alla stenosi aterosclerotica)
  • Insufficienza renale cronica
  • Tireotossicosi (ipertensione sistolica isolata con ampia differenziale), ipotiroidismo (in genere ipertensione prevalentemente diastolica con riduzione pressione differenziale)
  • Farmaci (estroprogestinici una comune causa sottovalutata, farmaci antirigetto, farmaci antineoplastici, cortisonici, anabolizzanti, ecc.)

Condizioni più rare d’ipertensione secondaria

  • Feocromocitoma (molto raro come causa di ipertensione e troppo spesso sospettato)
  • Displasia fibromuscolare (non raro anzi causa comune di ipertensione giovani ragazze/donne)
  • Coartazione aortica e altre patologie displastiche dell’aorta 
  • Sindrome di Cushing
  • Iperparatiroidismo e Acromegalia: vi son seri dubbi che causino ipertensione arteriosa indipendentemente dalla comune predisposizione genetica per ipertensione arteriosa, dieta inappropriata e sovrappeso corporeo.

Comuni condizioni cliniche che possono portare a incremento dei valori tensivi o comparsa di ipertensione (spesso anche considerate come ipertensioni secondarie)

  • Sindrome delle apnee ostruttive del sonno
  • Contraccettivi orali
  • Agenti simpaticomimetici (p.e i decongestionanti nasali)
  • Abuso di FANS
  • Terapie croniche con corticosteroidi
  • Agenti immunosoppressori (soprattutto inibitori calcineurine)
  • Eritropoietine
  • Agenti chemioterapici anti-angiogenetici (anti VEGF e suoi recettori soprattutto)
  • Utilizzo di droghe (amfetamine, cocaina e simili sostanze chimiche in continua evoluzione di comune uso ma quasi sempre negate in anamnesi)
  • Steroidi anabolizzanti
  • Abuso di liquirizia
  • “rimedi naturali”, “prodotti vegetali”, “integratori”, “nutraceutici”: alcuni possono contenere di tutto e di più…

Scelte terapeutiche preferenziali in comuni condizioni cliniche

Sulla base di quanto detto fino ad ora, verranno illustrate alcune condizioni cliniche e insieme ad esse l’algoritmo diagnostico con la migliore combinazione farmacologica eventualmente prescrivibile; in tutti i casi, a seconda del quadro clinico, andranno sempre escluse eventuali cause di ipertensione secondaria.

  • Donna in età fertile o che vorrebbe programmare una gravidanza: preferire i beta bloccanti ed i calcio antagonisti.
  • Paziente in sovrappeso con obesità centrale o obeso, con sindrome metabolica: ACEI o sartani, in associazione con diuretico tiazidico-simile; successivamente aggiungere calcio antagonisti ed eventualmente beta bloccante preferendo sempre molecole beta1 selettivi e che non interferiscano con il metabolismo glucidico.
  • Cardiopatia ipertensiva (dal rimodellamento concentrico in su con in genere disfunzione diastolica): sartano o ACEI, calcioantagonista.
  • Diabete danno renale cronico e/o microalbuminuria: sartano o ACEI.
  • Insufficienza renale e proteinuria: modulatori del RAAS in associazione con diuretici.
  • Cardiopatia ischemica: modulatore del RAAS in associazione con beta bloccante o calcio antagonista, oppure calcio antagonista in associazione con diuretico o beta bloccante, oppure beta bloccante in associazione con diuretico (+ sempre ridurre colesterolo sotto a 70 mg/dl e antiaggregante piastrinico)
  • Angina pectoris: betabloccante e/o calcio antagonista.
  • Scompenso cardiaco cronico: ACEI o sartani, beta 1 bloccante selettivo che copra le 24 ore, diuretico (se necessario e a dosaggi opportuni) ed antialdosteronico. Presto anche sacubitril-valsartan efficace antiipertensivo oltre che nello scompenso anche a frazione di eiezione conservata
  • Fibrillazione atriale: ACEI o sartano in associazione a beta bloccante o calcio antagonista non diidropiridinico per ridurre frequenza cardiaca se elevata.
  • Paziente con ictus cerebrale: preferire un calcio antagonista in associazione con modulatore del RAAS, beta bloccante o diuretico.
  • Vasculopatia periferica: calcio antagonisti + sartani (+ sempre portare colesterolo LDL sotto a 70 mg/dl!)
  • Africani: diuretico e calcio antagonista.
  • Ipotensione ortostatica con associata ipertensione notturna: questi pazienti solitamente necessitano di una terapia che riduca la pressione nelle ore notturne; modulatore del RAAS, calcio antagonista a emivita ridotta (8-12 ore) da somministrare prima di coricarsi assieme a calze a compressione graduale fino all’inguine di giorno quando ci si alza. 
  • Ipertrofia prostatica sintomatica (disuria, pollachiuria): alfa 1-litico.
  • BPCO e fumatori: preferire i sartani per evitare tosse da ACEI che confonderebbe il quadro e altre complicanze alle alte vie incluso angioedema. ACEI apparentemente legati a aumento cancro polmonare (dato tempo-correlato da confermare)

Breve cenno a urgenze ed emergenze ipertensive

Il termine di Urgenza Ipertensiva descrive una condizione d’ipertensione severa in pazienti che non hanno evidenze cliniche di danno d’organo acuto; questo tipo di rialzo pressorio non richiede l’ospedalizzazione e solitamente è secondario ad un evento acuto stressogeno (attacco di panico, crisi d’ansia, dolore acuto, epistassi…) che iperattiva il sistema nervoso simpatico in pazienti con un substrato di ipertensione non controllata dalla insufficiente terapia in atto (ipertensione che talvolta non trattano perché non sanno nemmeno di avere); la riduzione dei valori pressori si ha con il trattamento della patologia che ha determinato il rialzo dei valori stessi e in genere quini analgesici, ansiolitici ma può essere necessario iniziare un trattamento antipertensivo in genere con un calcioantagonista dididropiridinico (amlodipina 5-10 mg) a meno che non coesista aumento della frequenza cardiaca che allora fa preferire beta bloccante. Sono spesso pazienti che devono essere rivalutati per il problema pressorio dopo l’episodio acuto escludendo anche cause di ipertensione arteriosa secondaria quando indicato.

Per Emergenza Ipertensiva ‘intende una condizione nella quale una ipertensione in genere di grado 3 si associ a danno d’organo acuto ipertensione correlato: ipertensione maligna associata o meno a insufficienza renale acuta, ipertensione associata ad encefalopatia, ad eventi coronarici acuti, ad edema polmonare cardiogeno, a dissezione aortica acuta, a eclampsia o severa preeclampsia/HELLP: richiede sempre ospedalizzazione in semintensiva/intensiva e un immediato ed attento approccio per ridurre i valori tensivi, di solito con terapia endovenosa. Non è il compito di questo manuale quello di una trattazione sistematica di questo tipo di condizione clinica.

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  3. Interarm blood pressure differences predict target organ damage in type 2 diabetes. Spannella F, Giulietti F, Fedecostante M, Ricci M, Balietti P, Cocci G, Landi L, Bonfigli AR, Boemi M, Espinosa E, Sarzani R. J Clin Hypertens (Greenwich). 2017 May;19(5):472-478. doi: 10.1111/jch.12963. Epub 2016 Dec 27.   

  1. Associations between body mass index, ambulatory blood pressure findings, and changes in cardiac structure: relevance of pulse and nighttime pressures. Fedecostante M, Spannella F, Giulietti F, Espinosa E, Dessì-Fulgheri P, Sarzani R. J Clin Hypertens (Greenwich). 2015 Feb;17(2):147-53. doi: 10.1111/jch.12463. Epub 2015 Jan 5.

  1. Hypertensive heart disease and obesity: a complex interaction between hemodynamic and not hemodynamic factors. Sarzani R, Bordicchia M, Spannella F, Dessì-Fulgheri P, Fedecostante M. High Blood Press Cardiovasc Prev. 2014 Jun;21(2):81-7. doi: 10.1007/s40292-014-0054-3. Epub 2014 May 13. Review.

  1. Chronic kidney disease is characterized by "double trouble" higher pulse pressure plus night-time systolic blood pressure and more severe cardiac damage. Fedecostante M, Spannella F, Cola G, Espinosa E, Dessì-Fulgheri P, Sarzani R. PLoS One. 2014 Jan 23;9(1):e86155. doi: 10.1371/journal.pone.0086155. eCollection 2014.