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L'elasticità del rigore

Editoriale di Claudio Borghi

 

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Ho sempre apprezzato il ricorso all’utilizzo di ossimori come figura letteraria e soprattutto ho apprezzato ed invidiato coloro che li sapevano coniare con maestria e talora con impatto emozionale applicandoli a situazioni spesso paradossali così come paradossale è la natura stessa della costruzione ossimorica. Il più sfruttato è certamente “Il silenzio assordante” quando si vuole stigmatizzare la volontaria mancanza di prestare attenzione ad una situazione ritenuta disdicevole o scabrosa da alcuni, ma tollerabile o trascurabile da altri. Ora il medesimo concetto in forma di ossimoro si applica, a mio parere, anche alla modalità di gestione delle evidenze scientifiche in epoca di COVID con una apparente correlazione inversa tra la solidità dei concetti espressi dalla ricerca e la rapidità di diffusione ed applicazione di soluzioni conseguenti nella popolazione. L’accantonamento (spero temporaneo) di molti dei principi fondamentali della ricerca clinica ha sicuramente contribuito a tale sovvertimento delle scelte applicative, in parte generato dalla necessità di risolvere tutto e subito e di fornire alla opinione pubblica una ipotesi di sfuggire ad una minaccia di sconosciuta gravità per i tempi post-bellici. La conseguenza diretta di tale situazione è stata la applicazione clinica di protocolli terapeutici basati su osservazioni poco più che personali, prive di controlli adeguati e di elementari criteri di valutazione comparativa e derivate da piccole popolazioni che spiccavano per eterogeneità della loro composizione e mai avrebbero potuto rappresentare un campione credibile. Quindi in obbedienza ad una completa assenza di rigore metodologico si è proceduto proponendo raccomandazioni di intervento poco probabili che hanno completamente eluso uno dei principi della ricerca clinica ossia la prevenzione del concetto di falso positivo dietro al quale si celano nella migliore delle ipotesi la futilità dell’intervento e nella peggiore evenienza la una combinazione pericolosa di inefficacia ed incidenza di eventi indesiderati di rilevanza clinica (es.esteso impiego di idrossiclorochina, tentativo di rendere plausibile l’impiego di plasma iperimmune).  Qualcuno obietterà: ma quali altre possibilità avevamo se non aggrapparci a ciò che ci poteva dare una prospettiva? Forse nessuna, ma in un sistema insicuro ed incerto è probabilmente meglio essere prudenti piuttosto che muoversi repentinamente alla cieca magari cercando di accendere un cerino attraverso una semplificazione forzata della metodologia che ha permesso di mettere a confronto campioni di pazienti comparabili per caratteristiche anche se non rigorosamente randomizzati, dai quali è stato possibile ricavare informazioni ancora incerte, ma meno impregnate di potenzialità di nuocere. In questa ottica era legittimo attendersi che chi si vedeva costretto a giustificare la applicazione di soluzioni di intervento gravate dalla situazione di necessità, abbia esultato in occasione del ritorno alla normalità che ha caratterizzato la sperimentazione sui vaccini che, insieme al ripristino di condizioni di “legalità” sperimentale, ha riportato una ventata di fiducia per il ruolo ineludibile di raccomandazioni di intervento basate sulle evidenze e non sulla percezione. Inspiegabilmente invece la correttezza di approccio del versante vaccinale è stata investita da una valanga di dubbi applicativi che avrebbe ben figurato nella fase iniziale della pandemia e che ha doppiamente messo in discussione il sistema della metodologia di ricerca cercando di imporre una errata elasticità di interpretazione laddove invece aveva dominato il rigore. I vaccini anti-COVID sono stati infatti sviluppati sulla base di regole di correttezza scientifica coinvolgendo popolazioni appropriate, disegni sperimentali corretti, metodi statistici adeguati e pubblicazioni su riviste di elevato livello scientifico ed hanno restituito alla società uno scenario di intervento tracciabile in maniera esemplare. La ricaduta pratica di tale ritorno alle regole è stata, per contro, l’innesco di discussioni acerrime basate su posizioni soggettive (includendo in questo termine anche i soggetti istituzionali) ed ignorando pressochè completamente il ruolo della metodologia e della appropriatezza di intervento. Sembra che una logica di eresia abbia soffiato sulla gestione clinica dei pazienti in epoca di COVID, rendendo acriticamente plausibile ciò che contravveniva alle regole elementari della ricerca e imponendo una iper-criticità interpretativa alle evidenze generate con un cristallino approccio di plausibilità. Possiamo considerare questo atteggiamento frutto dei tempi e del disorientamento che il COVID ha generato? Forse. Certamente nel mondo della ricerca clinica qualche breccia si è creata e resterà a memoria di questo difficile periodo che è stato certamente animato da molta dedizione ed altruismo, ma che ha anche lasciato troppo spazio alla esuberanza di soluzioni soggettive cui si è attribuito un marchio di obiettività generalizzabile che la sintassi ossimorica descriverebbe come la elasticità del rigore.